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L’arte aniconica di William Vezzoli

L’arte aniconica di William Vezzoli

William Vezzoli, autore di una nuova pittura che considera il reale nel concetto che lo fa apparire, nel continuo uso di monocromie senza interventi che l’autodefiniscano, e poi l’oggetto che però non firma in sé per sé, allontanandosi dal Dada ma restando come riferimento nel Nouveau Réalisme, perché integra nel suo lavoro creativo l’apporto dell’era industriale come contributo alla ricerca di un diverso mezzo espressivo.

William Vezzoli - scrive il critico d'arte Andrea Barretta - sopravanza la “Critica del giudizio” di Kant come capacità di realizzare l’opera d’arte secondo il proprio naturale piacere estetico, per condividerne il concetto “arte bella” in cui non ci sono regole e imitatori poiché è la genialità a essere il medium tra fantasia e raziocinio, ed è fatto di spontaneità, per cui l’artista non subisce alcuna costrizione razionale. Così in questo suo ciclo di lavori il nostro autore mette in campo se stesso e le sue idee, utilizzando tagli, accumuli, combustioni, rottami metallici, legni, oggetti casalinghi, prendendo in prestito la sociologia della sensibilità oltre un mero stupore, oppure un’inutile provocazione comune a molta arte contemporanea, e dichiarandosi conoscitore di quanto usa giacché, come diceva Picasso, non si aggiunge ai tanti che “svaligiano il magazzino di Duchamp limitandosi a cambiare gli imballaggi”.

La prima personale è del 1979 e i suoi dipinti in questi anni sono essenzialmente frutto di uno scandaglio legato alla pittura “en plein air” in un apprendistato fra tradizione e sintesi tra classicità e modernità. Dalla metà degli anni Ottanta inizia l’esperienza in premi di pittura estemporanea e in vari concorsi, interrompendone però la partecipazione, nonostante fosse risultato primo classificato in oltre trenta manifestazioni artistiche.
Nel 1995 una forte crescita creativa alla definizione di uno stile personale che lo porterà a esplorare il raccordo con una moderna tessitura nell’alveo di artisti capaci d’innovazione, e va oltre nell’aggiungere progettualità e atmosfere modellate di quadri che non hanno la tela e tele che non hanno la pittura. Sarà l’avvicinamento a uno dei suoi temi, spazio-tempo, a specificare il suo processo di mediazione con l’arte, insieme a quello dei “viaggianti”. Sarà un leitmotiv a generare il visibile dell’invisibile nel filtro del silenzio che parla nell’ultimo passo del suo itinerario creativo che sta in quel gesto dada che innalza l’objet trouvé a opera d’arte. Infatti, del 2000, la scelta di continuare il proprio cammino usando l’accumulo dell’esperienza acquisita, nei luoghi e nella trepidazione per un “come” dipingere uno stato d’animo turbato dal “che fare” nell’attuale società dell’incertezza. Questo è il suo assunto che preserva il reale per abbandonarsi a una sorta di concettuale memoria che saccheggia nello stupore di un richiamo all’infanzia oppure nel gioco di assonanze e consonanze come ricordi da raccontare.



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