Lettere alfabetiche, ideogrammi, corsivi, arabeschi, immagini, geroglifici, combinati in modo da scuotere il linguaggio e la lettura d'uso abituale. Sono questi i materiali della Poesia Visiva. Segni che significano se stessi e che, insieme, rimandano ad altro da sé.
Lettere alfabetiche, ideogrammi, corsivi, arabeschi, immagini, geroglifici, combinati in modo da scuotere il linguaggio e la lettura d'uso abituale. Sono questi i materiali della Poesia Visiva. Segni che significano se stessi e che, insieme, rimandano ad altro da sé. Commistioni di dati verbali e dati iconici che, proprio nel punto in cui si incrociano, mostrano “qualcosa che non è più né parola né immagine”, ma un'esperienza di confine, un luogo interstiziale in cui i significati deviano, si alterano, si moltiplicano.
Ebbene, la proposta della Galleria La Giarina di quattordici artisti della Poesia Visiva va al di là di un semplice esame delle sperimentazioni verbo-visuali che si sviluppano a livello internazionale tra gli anni '60 e '80 del secolo scorso, anche perché si tratta di pratiche aperte che travalicano liberamente ogni vincolo di schieramento e di scuola. Intende invece porre l'accento proprio sull'inversione ironica dei significati e sulla sorpresa e imprevedibilità prodotta dal cortocircuito che s'instaura tra parola e immagine (o anche tra parola e cosa). Si tratta cioè di suscitare una sorta di continuo “spaesamento” nei confronti di quella che è l'ossessionante panorama di segni, simboli e figure che regolano la società dei consumi.
Basterebbe osservare quella borsetta nera da boutique (1988) su cui Ben Vautier ha scritto “Ce sac contient un billet d'avion...” e mille altre cose possibili, ma anche nascoste, ipotetiche, congetturali. È come se la parola perdesse il proprio valore di precisione, per accentuare il valore di ambiguità ed elusività. Su due sassi invece George Brecht traccia la nuda parola “Void” (1989), come a voler mettere a contatto due realtà antinomiche (la materia e lo spirito, il principio e la fine, il pieno e il vuoto). Ma il più delle volte ci troviamo di fronte a termini prelevati di peso da contesti quotidiani (titoli di giornali, sigle televisive, segnaletica stradale) fatti interagire in maniera provocatoria e problematica con immagini estrapolate da altri contesti quotidiani (fumetti, fotoromanzi, cartelloni pubblicitari): questo, per operare sempre direttamente su linguaggi di massa. Di conseguenza, l'obiettivo diventa quello di cogliere l’estraneo nello spazio dell’abituale, o meglio, quello di inceppare, se non addirittura di mandare a gambe all'aria il sistema della comunicazione, mostrando che in realtà non comunica più niente, se non la propria incomunicabilità. Così si spiegano anche alcune frasi inquietanti e contestative scritte su due tavole di Sarenco: “La poesia è morta, è morto anche il poeta” (1978) o anche “Cosa c'è dietro” (1983), quasi a far prendere coscienza al soggetto della propria alienazione ed emarginazione. In fondo, quella della Poesia Visiva è una ostinata lotta (o un'utopia?) per tentare di ricostruire un nuovo ordine di significati, una inattesa e sorprendente redenzione delle parole e delle immagini.
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